sabato 4 settembre 2010

NO, NON ORA, NON QUI





E' da tempo che volevo vedere l'opera di una giovane artista milanese (o che bazzica da queste parti, comunque). Si Chiama T. Per essere precisi T.F. Mi avevano incuriosito le sue cose che girano in Facebook. Fotografie di disegni, istallazioni, oggetti. Ero incuriosito perché, a dispetto delle migliaia di inutilità che vedo ogni giorno, le sue cose mi apparivano delicate, candide. Certo, c'erano dei riferimenti troppo forti e potenti a cose che avevo già visto e questo mi indispettiva. Quando fai una citazione "colta" e citi, ad esempio, Picasso, il gioco è facile. In un certo senso ci vuole anche coraggio. Tu, essere piccolo, ti permetti di (seppur) accennare un discorsetto su un grande autore. Questo coraggio può far piacere. Se arrivi a dire una cosa intelligente fa di te un eroe, un piccolo eroe semmai ma degno di rispetto.
Quando invece le tue citazioni (che spesso sembrano quasi delle appropriazioni) ricadono su autori minorissimi (per il grande pubblico ed il mercato, non di certo per la loro grandezza espressiva), allora il gioco diventa quasi sporco (all'occhio di chi guarda e sa).
Ecco, mi aveva infastidito l'eccessivo avvicinarsi a certa animazione anglosassone (acquisita) che a sua volta nasceva da un amore appassionato per gli animatori dell'est-Europa (non solo Svankmajer). Lo svelo chiaramente, il riferimento ai mondi partoriti dalle menti contorte dei Quay Brothers è troppo netto.
Nelle visioni di T. si vedono ben chiari percorsi altrui, mondi altrui, sogni catturati e non sognati.
Questo, mi son'detto, non deve certo appiattirmi. Alla fine di un artista mi interessa non certo l'originalità (non posso ora spiegarmi, ci vuole, come minimo, un intero articolo), bensì la potenza espressiva. La capacità di tradurre in materia, visiva soprattutto, una visione, una emozione, un concetto. La capacità di creare "da capo" a partire da sé (e magari per farlo sprofondare).
Mi sono dunque raggioito nel sapere che T.F. esponeva in una galleria milanese e, armato di buona volontà e di uno stato d'animo positivo sono andato.
Dico subito, per non trasformare questo scritto in una specie di giallo, che quello che ho visto non mi ha emozionato. La mia visita non è stata però una perdita di tempo. Mi è servita a dare un perché a quella intuizione iniziale avuta dalla visione riprodotta del lavoro.

La giovane artista ha sviluppato durante i suoi studi una buon gusto estetico. Ha dei gusti ottimi in campo artistico ed i suoi percorsi, in quanto spettatrice, sono molto affascinanti ed inconsueti (fuori dai canoni più che altro).
Il problema è che non è capace di una sintesi personale, una sintesi emotiva. T. si emoziona di fronte a quello che vede e che adora, capisce profondamente quello che sente, lo assorbe voracemente e meglio di altri sa lasciare penetrarsi dalla sensazione che l'opera emana. Il suo problema è la rielaborazione (e non è un problema da poco). Sembra che le sue opere non nascano da un percorso interiore personale bensì da una fredda pianificazione di un mondo che, seppur sentito in modo nitido al suo interno (ricordiamoci che non le apparteneva) non riesce a figurare.
Probabilmente il difetto sta proprio nella difficoltà a nascere da se stessa.
Questo produce delle opere che, apparentemente giungono delicate e sfuggenti, misteriose, imprendibili ma a veder bene sono difettose. Si vede dietro un cantiere che non è stato ben nascosto che non è stato sufficientemente ripulito. E non accetto tesi sulla bellezza del cantiere, perché quello che intendo io è il cantiere di una razionalità che non sa liberarsi di se stessa.
Sono rimasto atterrito difronte all'opera che da il nome alla esposizione personale. Una scala a "chiocciola" completamente ricoperta di chiocciole e tutta dipinta di bianco.
Ora provo a ripercorrere il processo creativo in due passaggi semplici.

Chiudo gli occhi e penso: una scala a chiocciola che non va da nessuna parte, una infinità di chiocciole che la ricoprono, come ad impedire il passaggio...il tutto di un bianco candido. Wow.

L'immagine è paradisiaca. Andiamo alla realizzazione. Mi procuro una scala a chiocciola, la prima che trovo probabilmente, mi procuro dei gusci di chiocciola di dimensione comunque molto grande, mi metto con pazienza e ricopro tutto di bianco.

E' il prodotto di una sensibilità solo pensata. Mi avvicino e vedo la verniciatura grossolana, vedo i gesti quotidiani di un'artista che sta faticando a ricoprire tutto e che semmai intanto si beve un'aranciata. Le chiocciole sono morte, sono solo gusci, non hanno odore. Mi fanno pensare alle retìne vendute nei chioschetti per turisti al mare, piene di conchiglie sterilizzate e asettiche. Penso che T. abbia preso quei gusci in un posto simile. Che se li sia fatti spedire, semmai acquistandoli in internet. Sono talmente asettiche e povere che mi viene da piangere. Dove sta la vita? Dove sta il movimento? Quelle chiocciole avrebbero dovuto puzzare, mi aspettavo che gocciolassero bava, che impedissero la mia ascesa facendomi paura, fermandomi il cuore. Non sono certo gusci vuoti, secchi e maldipinti che possono darmi un qualsiasi senso.
Invece è tutto artificio, nascosto. Nemmeno mostrato, quello l'avrei capito meglio. Invece quel nascondersi.
Insopportabile.

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